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Dall’astensione all’“altra ‘ndrangheta”. Ecco quant’è malata l’Emilia oggi

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Nella regione rossa in crisi d’identità i clan non sparano, ma soffocano l’economia e cercano di inflitrarsi nelle istituzioni. E una vasta zona grigia li difende. Dal caso Brescello ai contatti con la politica. Con il sospetto che il voto locale sia stato condizionato dalle cosche

di Giovanni Tizian

Peppone e don Camillo potevano litigare su tutto, ma c’era un momento sacro per entrambi: il voto. Invece la loro Brescello ora è diventata una delle capitali dell’astensione. Ai seggi per le regionali infatti si è presentato solo il 27 per cento degli elettori, mentre nel 2010 erano stati il 60 per cento. Ma il paesone bagnato dal Po, appollaiato nel cuore della Valpadana, è un ottimo osservatorio per capire il male che si è lentamente diffuso in queste terre, corrodendo il consenso del popolo rosso fino a spegnerne l’entusiasmo o spingerlo nelle braccia della Lega di Matteo Salvini.

Il modello emiliano costruito grazie al benessere in mezzo secolo dai sindaci comunisti alla Gino Cervi d’intesa con i prelati democristiani alla Fernandel si è sgretolato. E sulle sue macerie ha messo radici l’impero della ’ndrangheta emiliana, che contribuisce ad alimentare sfiducia e sospetti verso la politica locale.

È una realtà criminale cresciuta negli affari, tanti business protetti dalla fitta nebbia che da queste parti rende ogni cosa invisibile. Gli investigatori la chiamano “l’altra ’ndrangheta” per distinguerla dalle cosche calabresi e da quelle che si sono imposte in Lombardia.

In Emilia non spara, ogni tanto appicca un rogo dal sapore di ultimatum, ma è soprattutto una holding, che lentamente soffoca l’economia e cerca di contaminare le istituzioni. E ha sede legale proprio a Brescello, con magazzini e centri operativi nelle province di Piacenza, Parma, Modena, Mantova e Verona. Un mostro con artigli affilati che ha arraffato aziende di costruzione, di trasporto, di videogiochi. Ha riciclato montagne di quattrini. E offre una gamma di servizi perfetta per questi tempi di crisi: dal prestito di denaro al recupero crediti, garantendo manodopera a basso costo e soluzioni rapide per lo smaltimento rifiuti. Dopo il terremoto del 2012 si è ritagliata una fetta rilevante della ricostruzione (vedi box a pag. 50). E tutto fa capo a Cutro, comune del Crotonese che ha assunto un peso sempre maggiore nelle dinamiche della mafia calabrese.

L’infiltrazione è silenziosa ma devastante. Qui le cosche non conquistano, seducono. Puntano alla «conquista delle menti dei cittadini emiliani», come ha scritto la procura nazionale antimafia nell’ultima relazione. La sintesi perfetta del quadro disegnato dalle inchieste penali, che proprio per questo procedono a fatica. «Trovo maggiore difficoltà a fare indagini in Emilia Romagna che in Sicilia perché è più difficile distinguere il buono dal cattivo che qui si intrecciano», ha detto due anni fa il procuratore di Bologna Roberto Alfonso. Un’estesa zona grigia dove lecito e illecito convivono pacificamente. Il minimo comune denominatore di questa metamorfosi è il denaro. Ne hanno tanto: in pochi mesi carabinieri e Dia hanno sequestrato 13 milioni. La fitta trama di relazioni serve ai clan per incassare di più e per consolidare le fondamenta dell’impero. Le complicità con gli imprenditori locali permettono ai padrini di entrare nel mercato e ai loro nuovi soci di non affogare nei debiti. Ma come accade al Sud, il tavolo della spartizione richiede un terzo interlocutore: gli appoggi politici per accaparrarsi appalti e subappalti.

La fede di Graziano Delrio è granitica. Il braccio destro del presidente del Consiglio è un fervente cattolico. Ma c’è una festa religiosa che gli sta creando più di un imbarazzo politico: la processione del Santissimo crocifisso a Cutro, provincia di Crotone. Un rito avvenuto nel pieno della campagna elettorale del 2009 quando l’allora sindaco di Reggio Emilia correva per un nuovo mandato. In città e in tutto il circondario la comunità d’origine cutrese è talmente numerosa da pesare anche alle urne e quella spedizione in Calabria poteva avere un impatto nel voto. Delrio, all’epoca numero due dell’Anci, non è stato il solo a impegnarsi in questa trasferta: tutti gli altri candidati della zona hanno deciso di presentarsi al cospetto del Santissimo.
Ma in certe terre i simboli contano più delle parole: la processione dei primi cittadini emiliani è stata interpretata come un segno tangibile di riconoscenza da tutta la comunità calabrese. Anche da quelle persone che in Emilia alimentano i peggiori traffici. La questione è finita all’attenzione della procura antimafia di Bologna, che ha convocato come testimoni gli illustri partecipanti. Anche Delrio è stato sentito come “persona informata dei fatti”.

La sua deposizione è ancora segreta, ma le impressioni degli investigatori che hanno partecipato al colloquio confermano la grande difficoltà di fare luce nella nebbia padana. Gli inquirenti sono rimasti colpiti dalla bassa percezione mostrata dall’attuale sottosegretario di Palazzo Chigi, apparso ignaro delle dinamiche che la ’ndrangheta del Terzo Millennio ha messo in atto nel “cuore rosso” d’Italia. Per Delrio quel pellegrinaggio è stato solo un omaggio agli emigranti onesti che con il loro duro lavoro hanno partecipato alla costruzione del modello emiliano.

Opposta è la visione del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, che poche settimane fa, proprio a Reggio Emilia, ha dichiarato pubblicamente: «Se un candidato vuole rivolgersi ai calabresi, può parlare a quelli che vivono in Emilia. Se vai in Calabria vuol dire sapere che è là che si decide l’elezione, vuol dire che è da lì che deve venire il via libera al tuo sostegno elettorale». Non tutti i vertici del Pd hanno partecipato alla trasferta. Sonia Masini, che in quel 2009 era candidata alla Provincia, ha detto no: «Perché avrei dovuto? Chi mi vuole votare può farlo senza bisogno che io vada a Cutro. Ero candidata in Emilia, mica in Calabria» ha spiegato a “l’Espresso”. Anche la Masini è stata sentita in procura. Dopo dieci anni alla guida dell’ente locale, la sua carriera politica per il momento si è interrotta: il partito ha preferito non puntare su di lei alle regionali, scegliendo – questa la versione ufficiale – volti nuovi e più giovani, da protocollo renziano.

I magistrati hanno voluto ascoltare altre figure chiave dell’entourage dell’allora sindaco Delrio. Come Maria Sergio, dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e ora passata a quello di Modena, originaria di Cutro e sposata con l’attuale sindaco pd della città del tricolore, Luca Vecchi. Un settore strategico quello dell’Urbanistica. E proprio la commissione consiliare Territorio e ambiente per molto tempo è stata presieduta da un altro fedelissimo di Delrio: Salvatore Scarpino. Un punto di riferimento per il sottosegretario nella comunità cutrese, l’unico che ha ottenuto dal partito una deroga per ricandidarsi al terzo mandato in Consiglio comunale. Lui, dicono i ben informati, è il regista della trasferta calabrese. Scarpino oltre a essere un esperto di urbanistica è anche dirigente all’Agenzia delle Entrate di Bologna.

’NDRANGHETA A CHI?
La confusione tra legalità e ombre ha il suo epicentro a Brescello. L’erede di Peppone è Marcello Coffrini, diventato sindaco con i voti del Partito democratico. D’altronde ha avuto un grande maestro: suo padre infatti ha guidato la giunta per quasi vent’anni. Per il giovane Coffrini il boss calabrese Francesco Grande Aracri è «un personaggio tranquillo, composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello», come ha risposto al collettivo di giornalisti Cortocircuito autori di una video inchiesta rilanciata dalla Gazzetta di Reggio. Un profilo da libro “Cuore” insomma. Che però dà l’idea della grande strategia di mimetizzazione della ’ndrina, dominata secondo gli inquirenti proprio da Francesco Grande Aracri e dal fratello, il potente padrino Nicolino, detto “Manuzza”. La famiglia d’onore è tra i trenta clan più ricchi della ’ndrangheta. Il cuore a Cutro, il polmone economico a Brescello, da dove irradia la sua influenza fino a Verona e Mantova, restando però ben piantata lungo la via Emilia, da Modena a Piacenza.

Una presenza che non fa paura e non crea neppure imbarazzo: il sindaco Coffrini ha reagito con insofferenza alle polemiche nate dalle sue dichiarazioni su Grande Aracri. Qui il clan fa girare i soldi. E lo dimostrano le aziende sospettate dagli investigatori di rapporti con la cosca: due fanno parte della galassia di Confindustria Reggio Emilia. Forse per questo il sindaco di Brescello non è solo nel suo appoggio alla famiglia di Cutro. Anche una parte della cittadinanza difende Grande Aracri e le sue aziende che danno lavoro. C’è persino chi rispolvera motivazioni che neppure al Sud vengono più accettate, sostenendo che «in fondo la mafia è nata per togliere ai ricchi e dare ai poveri». Pure il parroco don Evandro Gherardi si è schierato con Coffrini: durante la processione cittadina ha affermato orgoglioso che Brescello non è mafiosa. Don e sindaco finalmente d’accordo. Ignorando le parole messe a verbale già nel 2007 dal pentito Angelo Cortese: «Brescello rappresenta Cutro, qui vive tutta la famiglia Grande Aracri, e quindi simbolicamente è importante; non che Reggio Emilia sia da meno, ma simbolicamente è Brescello il punto di riferimento».

«Quanto è accaduto in quel paese è sintomatico della pervasività della ’ndrangheta emiliana», racconta a “l’Espresso” un investigatore, che aggiunge: «ma i politici che la pensano in quel modo, o peggio che hanno avuto rapporti e si relazionano con il volto pulito della ’ndrangheta emiliana sono numerosi». La procura nazionale antimafia in un’audizione alla Commissione parlamentare ha segnalato un elemento inquietante: «Nel territorio emiliano i contatti con la politica esistono, sono esistiti nel 2007, quando ci furono le elezioni amministrative, e non escludo che ci siano stati anche con riferimento alle elezioni amministrative del 2012». Da quanto risulta a “l’Espresso” la provincia interessata dal sospetto di voto di scambio sarebbe quella di Parma. In particolare nella città ducale i movimenti opachi avrebbero riguardato un gruppo di emissari del clan Grande Aracri e alcuni esponenti del Pdl che si sarebbero mossi per far eleggere nel 2007 il berlusconiano Pietro Vignali, diventato sindaco e poi travolto da un’inchiesta per corruzione. Una notizia sepolta in una vecchia indagine della procura antimafia di Catanzaro, che non ha più avuto sviluppi.

UNA CENA CONTRO IL PREFETTO
Cristallizzata invece in alcuni rapporti dei carabinieri inviati alla prefettura di Reggio Emilia è la cena tra un cartello di imprenditori legato al clan Grande Aracri e tre politici del Pdl. L’incontro avvenuto nel 2012 era stato organizzato nel ristorante Antichi Sapori, di proprietà di Pasquale Brescia, molto in confidenza con questo entourage di uomini d’affari. Alla cena erano presenti Nicolino Sarcone, «referente della cosca a Reggio Emilia e comuni limitrofi» si legge nei documenti inviati al Prefetto, il fratello Gianluigi e Alfonso Diletto, nipote del fratello del boss “Manuzza”. Tra i commensali politici invece viene notato Giuseppe Pagliani: avvocato ed esponente di spicco di Forza Italia in città. Tra un piatto tipico e un bicchiere di vino la discussione è andata a finire sulla frenetica attività della prefettura: le interdittive che stavano lasciando fuori dagli appalti numerose aziende perché indicate come vicine ai Grande Aracri.

Una delle imprese colpite è di Giuseppe Iaquinta. E quella sera era presente pure lui. Il costruttore che ha creato un piccolo impero tra Reggio e Mantova è il padre di Vincenzo Iaquinta, l’attaccante della Juve dei record e della nazionale campione del mondo. La passione per il calcio è talmente radicata in casa che due mesi fa sembrava concretizzarsi la scalata di Iaquinta senior al Mantova calcio. Poi non se ne fece più nulla. Nel frattempo papà Iaquinta si è affidato all’avvocato Carlo Taormina: ha denunciato l’ex prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro per abuso d’ufficio. E ha chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di essere sentito per la «opportuna valutazione anche politica del prefetto di Reggio Emilia».

I nomi di Pagliani e Gianluigi Sarcone, invece, ritornano in un’altra vicenda. Sono stati ospiti nel talk show di un’emittente locale per parlare ancora una volta degli effetti dei provvedimenti della prefettura. A condurre il programma era il giornalista Marco Gibertini. Era l’11 ottobre 2012. Oggi il conduttore è agli arresti domiciliari per la maxi operazione della procura di Reggio Emilia su un giro di evasione e riciclaggio. E agli inquirenti non sfugge una certa familiarità del giornalista con un imprenditore considerato espressione del clan emiliano, coinvolto nella stessa indagine. Mentre Gianluigi Sarcone si sta difendendo in tribunale perché la Direzione investigativa di Firenze ha messo i sigilli alle sue aziende. Invece il rapporto dei carabinieri su Pagliani non ha intaccato la sua carriere politica: la Lega Nord lo ha sempre difeso nel consiglio comunale e nelle consultazioni regionali di domenica l’esponente berlusconiano ha sfiorato l’elezione, ottenendo un record personale di 2.634 preferenze nella lista che sosteneva il leghista Alan Fabbri, l’araldo di Salvini in terra d’Emilia.

http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/12/02/news/dall-astensione-alla-ndrangheta-quant-e-malata-l-emilia-1.190026


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